Eurovision Song Contest: diversità o omologazione?

Oggi, a poche ore dalla finale che incoronerà il 63° vincitore dell’Eurovision Song Contest vi voglio raccontare il mio punto di vista su una manifestazione che dovrebbe rappresentare una possibilità per i paesi in gara di mostrare al mondo le loro peculiarità, ciò di cui vanno fieri come popolo e come nazione.

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La scena in cui si svolge questa importante gara canora è l’Europa, nello specifico il paese vincitore dell’ultima edizione, gli attori sono i paesi europei (ad eccezion fatta per l’Australia) che a suon di eliminazioni si aggiudicano la possibilità di accedere alla tanto agognata finale. Una rassegna canora che mira ad unire popoli diversi sotto un unico comune denominatore che è la musica, ad abbattere, quindi, quei confini che la politica ancora non riesce ad eliminare. Utilizzo il termine confini perché oggi, nonostante si parli tanto di Unione Europea, di Comunità Europea, di libertà di spostamento all’interno dei confini europei, la verità è che ogni paese ha ben chiaro il proprio confine fisico che sempre più spesso, purtroppo, si traduce in veri e propri muri.

Questa Europa avrebbe dovuto insegnarci l’accoglienza, l’uguaglianza oltre le diversità, l’essere cittadini del mondo mantenendo le nostre radici ben salde. Da una manifestazione come l’Eurovision Song Contest mi sarei aspettata proprio questo: l’espressione delle diversità nazionali in un contesto europeo. 

La maniera migliore di rappresentare le proprie radici, quello che, come nazione, ci caratterizza e ci rende diversi dagli altri, credo sia, in primis, la lingua, il modo in cui ogni giorno ciascuno di noi si esprime, dà voce a pensieri e stati d’animo. L’espressione verbale è il nostro modo di metterci in contatto con l’esterno, quella che utilizziamo oggi è anche il frutto della storia di un popolo, di dominazioni,  commistioni e contaminazioni, è il contenitore di anni di vissuto e, per questo, ci identifica. 

Guardando le serate di qualificazione quello che ho visto è stata una serie di performance costruite per stupire, brani che al di là della loro genesi, sono stati presentati in lingua inglese. Mi chiedo allora quale sia la differenza tra un paese e l’altro se, ascoltando una canzone, non riesco a capire quale nazione rappresenti. Questa, fortunatamente, non è stata la scelta di tutti i concorrenti, qualcuno ha deciso di rappresentare il suo paese, utilizzando la lingua che parla ogni giorno, proprio perché le sfumature che  ogni espressione porta con sé difficilmente verranno rese in maniera identica in un altro idioma.

In un contesto come l’Eurovision ogni nazione avrebbe dovuto ricordarsi che, prima ancora di essere parte di un unico grande continente, che è l’Europa, ogni paese è il racconto di sé stesso e della sua storia.

Sono orgogliosa di come gli artisti italiani stiano rappresentando il nostro paese raccontando in Italiano quello che succede nel mondo, non nei massimi sistemi, ma nelle vite di ogni singolo individuo e questo, seppur mutando per ciascun essere umano, rimane identico per tutti perché identico è il sentimento di smarrimento che in questi anni ci accomuna.

Un grazie va, quindi, ai nostri rappresentanti, Ermal Meta e Fabrizio Moro, per aver portato in Europa, insieme alla loro professionalità e umanità, un pezzetto dell’Italia migliore, quella che ancora spera e crede in qualcosa, rialzandosi ad ogni caduta, cercando di non cedere alla paura che immobilizza.

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